Più luci che ombre sull’euro: moneta di pace

L’opportunità della permanenza nella valuta unica è entrata di forza nel dibattito politico. Ma quali i vantaggi di questa scelta? Cosa ci insegna la storia? Quali errori da non ripetere? Ce lo spiega la docente della Cattolica Simona Beretta

Simona Beretta Bcc Abruzzi E Molise
10 aprile 2018
La Mia Banca | 

Implicazioni economiche ce ne sono, quando si parla di moneta unica: è un’ovvietà. Ma la professoressa Simona Beretta, docente di Politiche Economiche Internazionali all’Università di Cattolica di Milano, dopo una lunga e appassionante chiacchierata su euro, svalutazioni, cambi fissi, produttività, politiche fiscali, Europa a più velocità e molto altro, non ha dubbi: ad oggi rimane il solo caso nella storia di un’unificazione fra grandi paesi sovrani ottenuta per consenso, senza una guerra. Non fu così per il dollaro americano, e non fu così neanche per la nostra lira. L’euro, dunque, ha un valore molto più politico di quello che non possa apparire: parla di pace in un mondo con la guerra alle porte, e fosse solo per questo, andrebbe decisamente “rivalutato”, per usare proprio il linguaggio della politica monetaria. È forse il messaggio più persuasivo che emerge da questa intervista in cui la docente ci aiuta a mettere alcuni paletti fermi nel dibattito – troppo spesso frettoloso e superficiale – sull’opportunità della permanenza dell’Italia nella moneta unica.

 

Professoressa Beretta, cosa implica stare in un sistema di moneta unica?

Ogni Paese vive, al suo interno, in un sistema del genere: non dimentichiamo che anche la lira era il frutto di un’unificazione monetaria avvenuta dieci anni dopo quella politica. Detto questo, un sistema di moneta unica richiede un certo grado di coesione politica e istituzionale che faciliti l’utilizzo di quello che, in fondo, è uno strumento economico, la moneta appunto.

 

L'euro è un unicum nella storia o ci sono altre esperienze simili?

Ci sono diversi altri casi di creazione di monete comuni e, come detto, la stessa lira è uno di questi. L’euro però è un’esperienza insolita perché nasce da grandi Paesi, anche abbastanza diversi tra loro, a differenza dei piccoli stati preunitari dell’Italia, o gli stessi stati federali negli Usa. Ma è soprattutto un’altra la differenza: la moneta unica europea è stata ottenuta senza guerre, la sua realizzazione ha preso le mosse da una volontà e da un desiderio comune. Inoltre, per quanto riguarda proprio il nostro Paese, la moneta unica al momento della sua creazione ha goduto di un larghissimo consenso, al punto che gli italiani furono disposti a pagare senza troppi traumi anche la famosa “eurotassa”.

 

In generale, quali i vantaggi e quali gli svantaggi di una moneta unica? E, nel caso dell'eurozona, ci sono specificità, in termini di pro e contro?

I vantaggi sono soprattutto di natura microeconomica: persone e imprese possono muoversi e lavorare in un clima di certezza, anche pratica, che moltiplica gli scambi, umani e commerciali. Moneta unica, dunque, significa ridurre l’incertezza, così come i costi delle transazioni, oltre a rendere più prevedibile il sistema: com’è noto, esportare in situazioni di insicurezza è più difficile. Gli svantaggi invece sono macroeconomici: i governi nazionali scelgono di non utilizzare uno strumento che prima avevano a disposizione, la moneta appunto. Se in certi casi può essere vantaggioso - in situazioni di moneta unica non ci si deve preoccupare di difendere il cambio della valuta nazionale – sicuramente significa anche rinunciare a possibilità di politica economica come le svalutazioni competitive, di cui parleremo più avanti. Con la moneta unica, in altri termini, uno stato delega a livelli superiori un potere che tradizionalmente aveva avuto.

 

Può un sistema monetario unificato vivere senza un'economia unificata o almeno omogenea? E può tale sistema vivere senza un sistema politico unitario, con potere decisionale almeno in termini fiscali?

Un sistema monetario si applica a realtà economiche per definizione disomogenee. Attenzione, però: essere diversi non è un ostacolo, se si instaura una competizione sana all’interno della stessa zona di riferimento. Al tempo stesso, avere una moneta unica non produce effetti simili ovunque: se chi è ricco diventa sempre più ricco e, viceversa, chi è povero diventa sempre più povero, tensioni del genere possono portare alla deflagrazione del sistema monetario stesso. Naturalmente, le monete nascono e muoiono come tutte le istituzioni umane, ma porre fine ad esperienze unificanti è pur sempre una scelta drammatica. Per questo, quando si parla di moneta unica, il permanere di politiche fiscali nazionali molto diverse rappresenta un problema, perché poter prelevare e ridistribuire in modo relativamente omogeneo aiuta la stabilità. L’Europa su questo aspetto è invece all’anno zero, come dimostra non solo l’assenza di coordinamento fiscale ma anche la presenza di tassazioni competitive portate avanti da alcuni Paesi. Sono scelte politiche ancora più destabilizzanti per l’intero sistema perché accentuano i problemi invece di risolverli. In definitiva: nella zona euro la cooperazione fiscale è una necessità, ma manca il coraggio di attuarla. E per questo occorre essere chiari: quello della spesa pubblica in deficit o del debito pubblico eccessivo – argomento tanto caro in ambienti comunitari - è solo uno dei molteplici aspetti di divergenza fra sistemi fiscali, che non ha solo una dimensione macro, ma anche molti aspetti micro (esempio: la tassazione delle imprese). Tutti questi aspetti del problema vanno messi a tema, tenendo in giusta considerazione la mancanza di cooperazione fiscale.

 

È l'euro che genera un'Europa a due velocità o, viceversa, un'Europa a due velocità ha bisogno dell'euro per esistere?

La velocità in un’area comune è innanzitutto diversa per ragioni reali: la disponibilità di risorse (materiali e umane), la tecnologia, la produttività (problema significativo, specie in Italia), la cultura del lavoro, le preferenze delle persone. Naturalmente, anche l’esistenza di quadri istituzionali differenti incidono in questo discorso: se ci vogliono anni per tirar su impresa per via della burocrazia, è evidente che ci sono fattori di sistema che possono accentuare le differenze. Come detto prima, la moneta unica è uno strumento che crea o facilita la competizione: tutto sta a saper approfittare di questa situazione, evitando tensioni che possono portare alla rottura del sistema stesso. Se in Italia, al riguardo, sapessimo ritornare alla freschezza del nostro popolo, fatta di una eredità culturale e di capacità creative che nessun altro al mondo può vantare, non avremmo paura della competizione, e giocheremmo a viso aperto con i partner europei la partita della crescita nell’eurozona.

 

A suo avviso, il tasso di cambio euro-lira fu equo e funzionale alla nostra economia?

Fu scelto con un criterio formale, di tipo procedurale, dettato anche da una ragionevole prudenza. Quello adottato al tempo garantiva scambi bilanciati, senza tensioni, ed era il tasso prevalso nei due anni precedenti, in cui i mercati rimasero sufficientemente tranquilli e senza scossoni. Fu dunque scelto tutto sommato bene. Il problema è piuttosto un altro: quel cambio ha continuato a riflettere una situazione di equilibrio nelle relazioni fra sistema interno e sistema europeo? In un’economia come la nostra, che negli anni successivi ha assistito progressivamente ad un significativo calo di produttività, direi di no, ma questo fenomeno è anche dovuto alla decisione tutta italiana di non affrontare taluni nodi politico-istituzionali che hanno ulteriormente sclerotizzato i problemi. In altri termini, la grande chance di migliorare problemi atavici della nostra economia dataci dall’ingresso nell’euro (ad esempio l’immediato, drastico calo del costo dell’indebitamento pubblico) non l’abbiamo affatto sfruttata.

 

Cosa pensa di chi rimpiange le "svalutazioni competitive"? Sarebbero attuabili in un'economia globalizzata come quella dei giorni nostri?

Se ci riferiamo alle svalutazioni applicate dai nazionalismi dopo la grande crisi del Ventinove, furono a dir poco disastrose, al punto che chi le aveva intraprese non aveva dubbi che bisognasse porvi rimedio. Infatti, quelle esperienze portarono di fatto un grande consenso ai cambi fissi stabiliti a Bretton Woods prima della fine della seconda guerra mondiale, nel 1944. Se, invece, parliamo di quelle applicate negli anni Settanta dall’Italia, dobbiamo riconoscere anche in questo caso che non hanno di fatto contribuito a migliorare la competitività del nostro Paese, a causa dell’inevitabile susseguirsi di svalutazione-inflazione che generavano. E infatti, le abbiamo progressivamente accantonate scegliendo di partecipare al Sistema Monetario Europeo, perché sostanzialmente non portavano a nulla. In un solo caso, invece, si può parlare di successo, ma più che di svalutazione sarebbe meglio parlare di un singolo episodio di deprezzamento largamente pilotato dai mercati: quello che la lira ha avuto dopo la crisi dello Sme nel 1982, che fu pari al 30 per cento secco (grosso modo, la differenza fra l’inflazione cumulata dell’Italia nei precedenti anni e la corrispondente inflazione tedesca). Fu una scelta che generò un grande vantaggio commerciale, favorito poi da un’intelligente politica della Banca d’Italia che, con una politica monetaria assai prudente, spezzò la spirale svalutazione-inflazione. E oggi, tornare a quelle svalutazioni non si può! O meglio: tecnicamente si può, ma non è auspicabile perché, se pure ci facessimo la nostra “nuova lira” e la svalutassimo, non produrremmo trasformazioni di carattere “reale”: saremmo costretti ad acquistare ancora l’energia, di cui siamo notoriamente poveri, ai prezzi della moneta svalutata, il che implicherebbe una rapida risalita dei prezzi e dei salari che in poco tempo ci porterebbe al punto di partenza. Dunque, spezzo una lancia contro le svalutazioni.

 

L'euro ha inciso sul potere d'acquisto degli italiani?

La risposta dipende dal paniere che si sceglie come riferimento. In settori senza sufficienti controlli, dominati da monopoli e oligopoli, i prezzi sono aumentati notevolmente, diminuendo di conseguenza il potere d’acquisto delle famiglie, mentre in comparti fortemente competitivi tutto ciò non è accaduto. Le faccio due esempi “da massaia”: i prezzi di frutta e verdura fresca sono visibilmente aumentati, a differenza di quelli delle bottiglie di pomodoro. Nel primo caso, si tratta di mercati al di fuori di sufficienti controlli, nel secondo di prodotti che si trovano nella grande distribuzione dove, notoriamente, c’è una grande competizione. La domanda da porsi, allora, è: l’Italia ha saputo approfittare dell’euro per rendere più trasparenti alcuni mercati interni, risolvendo concentrazioni di potere che ostacolano una reale e benefica concorrenza? Purtroppo la risposta prevalente è no, a livello micro come a livello macro: il nostro Paese, invece di approfittare dei vantaggi sul bilancio pubblico di un tasso di interesse intorno al 2,5 per cento sul debito pubblico (a fronte del 7 per cento prima dell’entrate nell’euro), si è dedicato a dibattere sul come distribuire il “tesoretto” alla ricerca di consenso elettorale, invece di convergere verso una iniziale sistemazione dei conti pubblici, a tutto vantaggio dell’intero sistema. Sotto questo punto di vista, l’euro è stato anche un’occasione sciupata.

 

Cosa pensa della Brexit?

Sinceramente non me l’aspettavo, anche perché si tratta di una decisione presa sul fil di lana: favorevoli infatti sono stati poco più del 50 per cento degli inglesi. Quasi una scelta con la monetina… In ogni caso, per tornare al discorso iniziale, è una scelta interessante perché ci dice che nell’Unione Europea si può litigare in maniera civile, e per risolvere controversie non c’è bisogno di fare la guerra. Certo, ora assisteremo a negoziati lunghi ma meglio questa strada rispetto al conflitto aperto di tipo commerciale (o addirittura armato). In termini economici, le ricadute ci saranno ma non credo a ricadute enormi: il pil della Gran Bretagna deriva in gran parte dal ruolo di Londra, con i suoi mercati finanziari e con i suoi servizi venduti a tutto il mondo, e Brexit non penso intaccherà più di tanto questa centralità. Ma fare previsioni è difficile. Lo stesso vale per valutare l’impatto della Bexit sull’Italia: difficile dire quanto risentirà di questa scelta, perché tante sono le variabili in gioco. In ogni caso, si può ragionare: per affrontare la complessità di scenari multiformi, però, bisogna avere idee chiare sull’essenziale – cosa che, purtroppo, sull’euro noi italiani abbiamo smarrito.

 

Cosa c'è nel futuro della moneta unica? Di cosa ci sarebbe bisogno nel futuro della moneta unica?

Io spero che si trovi il modo di andare avanti con un’organizzazione monetaria che certamente va riformata ma di cui, a ben vedere, si può dire più bene che male. Un sistema in cui, se si vuole, si possono fare scelte politiche improntate al bene di tutti. Al riguardo, il governatore della Bce Mario Draghi ha dimostrato che la tecnocrazia non è tutto. Ciò che servirà, soprattutto, è una narrazione convincente delle buone ragioni per cui vale la pena ancora stare insieme: se sapremo riscoprire la solidarietà concreta anche nella politica economica, sapremo dare anche un futuro a questa bella realtà chiamata moneta unica europea, in un mondo dove la guerra, piaccia o no, non è un’ipotesi remota.

 

 

Simona Beretta

Simona Beretta è professore ordinario di Politiche Economiche Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore del Master in International Cooperation and Development all’Aseri, l’Alta Scuola in Economia e Relazioni Internazionali della medesima Università. È membro del consiglio direttivo del Centro di ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa e della Social Affair Commission della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea, a Bruxelles.