Crescita economica: puntare su istruzione e innovazione

L'analisi del professor Emanuele Felice: l'Iitalia ha agganciato la ripresa ma antiche tare, oggi aggravate, non le permettono di volare. "Ma riformare il sistema è indispensabile"

Emanuele Felice Bcc Abruzzi E Molise Copia
10 dicembre 2017
La Mia Banca | 

È un'analisi limpida, quella del professor Felice: l'Italia è uscita dalle secche della recessione, ma ancora molto resta da fare. Come? In quale direzione? Quale ruolo può e deve avere il credito? A queste e ad altre domande ha risposto in un'intervista da cui emerge una fotografia completa del sistema economico e produttivo italiano.

 

Professor Felice, i dati Istat sulla crescita vanno oltre ogni più rosea aspettativa. Il peggio è alle spalle?

Probabilmente sì. È in corso una ripresa europea e l’Italia l’ha agganciata. Ci sarà tempo per consolidarla dato che, grazie all’euro forte (ovvero al dollaro debole), è probabile che il quantitative easing della Bce continuerà ancora per un anno.

 

L'Italia è tornata a crescere ma meno degli altri paesi industrializzati: perché secondo lei?

Questo è il vero punto chiave. Il declino dell’Italia prosegue. Il nostro Paese soffre di significative carenze in almeno due delle infrastrutture fondamentali per la crescita: il sistema burocratico-amministrativo e quello di istruzione e innovazione. Sono peraltro tare antiche, ma negli ultimi decenni si sono aggravate. In queste settimane è uscito un volume per i tipi del Mulino cui ho collaborato, “Ricchi per caso” (a cura di P. Di Martino e M. Vasta), che su questo riporta ampia evidenzia storica, dall’Unità a oggi, in una prospettiva comparata con gli altri paesi avanzati.

 

Ogni crisi dovrebbe essere un'occasione per imparare dagli errori e guardare al futuro. Secondo lei l'Italia ha sfruttato questa occasione?

Qualcosa in realtà è stato fatto. Ma molto poco in merito ai due deficit che menzionavo. Le grandi riforme, peraltro imperfette, sono in larga parte fallite, nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica o addirittura con il suo beneplacito.

 

Il governatore Ignazio Visco ha parlato di ripresa congiunturale, non strutturale. Secondo lei di cosa c'è bisogno per trasformare una ripresa congiunturale in una strutturale?

Visco su questo ha ragione. Per aumentare il nostro potenziale di crescita ed uscire dal declino è necessario che l’Italia si ponga, per funzionamento della pubblica amministrazione e della giustizia, per risultati scolastici e percentuale di laureati, per investimenti in istruzione e ricerca, ai livelli di Francia e Germania e degli altri paesi del Nord Europa.

 

In un sistema economico che funziona bene, quanto merito hanno le istituzioni e quanto gli imprenditori?

Ovviamente contano entrambi. Ma le istituzioni forniscono gli incentivi che orientano le scelte degli imprenditori, tendo quindi a considerarle prioritarie. Dopodiché, a parità di istituzioni, contano i livelli di capitale umano e sociale, che riguardano i cittadini tutti ma anche gli imprenditori, contribuendo a definire la qualità o meno, di una classe imprenditoriale e più in generale di una classe dirigente. Capitale umano, come già detto, ma anche capitale sociale (civicness, onestà, fiducia) da noi sono carenti e influiscono sulla qualità e la lungimiranza degli imprenditori; fra i quali certo non mancano eccellenze, ma sempre più rade.

 

Lei più volte ha parlato di innovazione come motore dello sviluppo. Che cos'è l'innovazione? In Italia si fa davvero?

I dati sui brevetti dicono che ne facciamo meno degli altri paesi avanzati, e in settori a più basso contenuto tecnologico; e molto meno al Sud che al Nord (sin dall’Unità). Cosa che in effetti non stupisce, dati il basso livello di investimenti in istruzione e ricerca e la piccola dimensione delle imprese. In effetti, nel corso della sua storia unitaria l’Italia ha avuto prevalentemente un’innovazione adattativa: ha cioè importato innovazioni dall’estero, riadattandole un po’. Questo è un risultato ampiamente acquisito dalla storiografa economica, a partire dagli studi di Renato Giannetti, fino a quelli di Alessandro Nuvolari e Michelangelo Vasta. Fin quando questo si poteva fare, il modello ha pure funzionato. Ma a un certo punto, alla metà degli anni Novanta del Novecento, quando si sono fatte più stringenti le regole internazionali sulla proprietà intellettuale e il free-riding tecnologico dell’Italia è divenuto sempre più difficile.

 

Il tessuto produttivo italiano è fatto in prevalenza di piccole e medie imprese: è un punto di forza o di debolezza? Di che politiche specifiche ha bisogno questo mondo?

Per fortuna che ci sono, le piccole e medie imprese, almeno loro. Ma non è un punto di forza. Il tessuto produttivo italiano ha bisogno di politiche (appropriati incentivi fiscali, ad esempio) che aiutino le imprese di successo a crescere, superando il nanismo delle imprese.

 

La crisi degli anni scorsi, secondo alcuni, è figlia di una sovraesposizione della finanza rispetto all'economia reale: è d'accordo?

Non tanto. Al fondo vi era l’economia reale, come lei la chiama, e infatti la crisi è ben presto diventata industriale. Vi era cioè un antico problema, tipico del modo di produzione capitalistico: l’offerta supera la domanda. Keynes aveva risolto il problema con l’intervento pubblico, per sostenere la domanda appunto; ma poi negli ultimi decenni il welfare state è finito in parte smantellato. Lo iato tra offerta e domanda però persisteva. La bolla finanziaria è sorta per ovviare a questo iato, tipicamente fornendo credito facile ai consumatori. Il resto è noto.

 

Secondo lei le banche, in questi anni, hanno ostacolato o favorito la ripresa italiana? O non hanno inciso?

Anzitutto va detto che, negli anni precedenti la crisi economica, il sistema finanziario italiano ha fornito meno credito facile rispetto ad altri sistemi (quello statunitense, ma anche, in Europa, quelli inglese, spagnolo, per certi versi tedesco). E questo è un bene. Tuttavia sono emersi altri problemi. Tanto che possiamo dire che le banche italiane negli ultimi anni sono state un ostacolo alla ripresa, più che un supporto. Soprattutto, direi, per logiche clientelari e familistiche, che mal si confanno a un sistema capitalista avanzato. Quel che preoccupa è che questa debolezza si è manifestata soprattutto nella Terza Italia, cioè in quel tessuto produttivo che una volta era la nostra forza.

 

Quale ruolo dovrebbe avere una banca in un sano sistema economico?

Tanti ruoli. Garantire i risparmi dei cittadini, finanziare gli investimenti e magari fornire anche assistenza manageriale, ai cittadini e alle imprese; volendo anche contribuire ad attività sociali e culturali, creando così beni pubblici. Ma non certo quello di distribuire prebende a gruppi di potere poco trasparenti.

 

Che ruolo hanno e possono avere nella crescita economica banche come Bcc Sangro Teatina, fortemente radicate al territorio?

Potrebbero tutelare e promuovere l'imprenditoria locale. Aggiungo, in particolare la nascita di start-up, in settori innovativi. Ma affinché sia davvero così, bisogna ricordarsi che prima di tutto - prima anche del territorio - viene il merito. E che le imprese di successo, se sono davvero di successo, devono poi crescere e aprirsi al mondo, evitando di cullarsi troppo nel mito del "piccolo è bello". 

 

L'economia mondiale cambia a ritmi vertiginosi: pensa che le nuove generazioni, in particolare i cosiddetti "millennials", possano agganciare più facilmente questi cambiamenti rispetto a quanto non abbiano fatto i loro padri?

Guardi, a dire il vero è dalla fine dell’Ottocento che l’economia mondiale gira a ritmi vertiginosi. Dopodiché per agganciare i cambiamenti contano due cose: la disponibilità a mettersi in gioco e le conoscenze acquisite. Oggi, in Italia, se l’istruzione non migliora i nostri millennials italiani faranno i camerieri o, al massimo, gli operai despecializzati. Magari col telefonino.

 

Come vede il sistema economico abruzzese? Perché l'Abruzzo non è sud ma non è ancora nord?

L’Abruzzo per molti aspetti è ancora Sud. Non per nulla, in quanto a Pil pro capite si trova saldamente indietro tutte le regioni del Centro-Nord (benché un po’ avanti alle altre regioni del Sud). Va detto però che qui c’è un tessuto produttivo importante, specie tra la Val di Sangro e il Teramano, passando ovviamente per Pescara, e che per certi versi le istituzioni abruzzesi funzionano meglio di quelle di altre regioni del Sud. Anche i livelli di capitale umano e sociale sono in genere migliori, così come minore è la criminalità. Sull’altro piatto della bilancia, mi pare che la mentalità familistica e clientelare sia ancora molto forte. Questo forse è il deficit principale.

 

 

Emanuele Felice

Nato nel 1977 a Lanciano (Ch), è professore associato di Economia presso l’Università di Chieti-Pescara ed editorialista di "Repubblica" (già per "La Stampa"). Dal 2010 al 2015 è stato professore di Storia Economica presso l’Università Autonoma di Barcellona. Nel 2017 è stato abilitato professore ordinario in quattro diverse discipline. Per i suoi saggi sulla storia economica italiana negli ultimi anni ha ricevuto diversi premi, italiani e internazionali. Fra le sue pubblicazioni: "Perché il Sud è rimasto indietro" (il Mulino, 2013 e 2016), "Ascesa e declino. Storia economica d’Italia" (il Mulino, 2015), "Storia economica della felicità" (il Mulino, 2017).