Quello che ci ha insegnato la pandemia: un'Italia più seria

Il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, analizza cambiamenti e prospettive della nostra società. Paura, risparmio, futuro: le sfide sul campo per rimettere in moto un paese che vuole ripartire

Giuseppe Derita Bcc Abruzzi E Molise
10 aprile 2021
La Mia Banca | 

Un’Italia che ha avuto paura, ha risparmiato tanto e che ora, inevitabilmente, deve decidere che futuro vuole. Un’Italia che, dalla pandemia, non esce migliore: semplicemente, esce più seria. Ne è convinto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, lo storico centro studi che da oltre cinquant’anni produce fotografie sempre a fuoco della nostra Italia, puntando l’obiettivo su società, economia, territorio. In questa cordiale intervista che ha concesso a La Mia Banca, De Rita prova a leggere in profondità cosa lascia in eredità la pandemia. Prima, però, volentieri parla del Censis, quando nasce, come opera.

 

Presidente De Rita, che cos’è il Censis?

Il Centro Studi Investimenti Sociali ha un’origine particolare: l’uscita dallo Svimez della sezione sociologica, costituita nel 1955 e progressivamente cresciuta in dimensione e ruolo. Nel 1963, di fatto assistemmo ad un grande licenziamento collettivo: io e i miei colleghi ci guardammo in faccia e ci chiedemmo cosa volessimo fare. Fu così che, nel 1964, tutti e quattordici decidemmo di restare insieme e andare avanti. Inizialmente ci costituimmo come associazione per trasformarci, nel 1971, in fondazione. Da sempre, il Censis è un’azienda, che vive sul mercato, senza contributi pubblici: gli studi che produciamo, li facciamo su contratto.

 

Attualmente, il “Rapporto sulla situazione sociale del Paese” è lo strumento più qualificato per interpretare la realtà italiana: come si è arrivati negli anni a questo successo?

È interessante riscoprire l’origine di questo strumento. Appena nati, nel 1964, il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, pensò di allegare alla tradizionale Dichiarazione sullo Stato dell’Unione anche un rapporto sociale, commissionandolo all’Accademia delle scienze sociali. Quest’ultima di fatto declinò l’invito, rimarcando l’eccessiva complessità degli Stati Uniti, della sua popolazione, del suo territorio. Questa vera e propria dichiarazione di impotenza fece il giro del mondo, e arrivò anche sulla mia scrivania. Ero convinto, diversamente dagli americani, che in Italia un rapporto del genere si potesse fare: ne parlai al presidente del Cnel, Pietro Campilli, che mi chiese il costo di un simile rapporto. Dieci milioni di lire, fu la mia risposta, accettata dall’ente che lo finanziò per dieci anni di seguito, mentre oggi è il prodotto di un nostro sforzo finanziario. Sin da subito divenne uno strumento molto apprezzato. Quando, agli inizi degli anni Settanta, nel Rapporto parlammo dell’economia sommersa, pari al 35 per cento del nostro Pil, scoppiò una baruffa che coinvolse l’Istat, i ministri, l’opinione pubblica. Grazie a questo episodio, la nostra visibilità ne guadagnò molto, incoraggiando un lavoro divenuto un punto di riferimento.

 

Perché è tuttora un punto di riferimento?

Perché analizza l’Italia e gli italiani sotto molteplici punti di vista ma, soprattutto, perché affianca metodo scientifico e ricerca sul campo. La nostra è una squadra di “annusatori”: ci piace approfondire, conoscere di persona, stare sul territorio, tra la gente, anticipare tendenze. Non a caso, ho imparato tanto dal giornalista Giorgio Bocca: il suo metodo di indagine giornalistica molto ha contribuito al nostro modo di realizzare il Rapporto, al quale lavora l’intera squadra, ognuno con una specifica competenza. Personalmente, ho curato tutte le considerazioni generali: questa parte del lavoro trae spunto da quelle che erano le considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli.

 

Veniamo alla pandemia. Secondo lei, ha cambiato gli italiani e l’Italia?

Più che gli italiani, ha cambiato alcune abitudini degli italiani. Non dimentichiamo che siamo quel popolo che, in ogni crisi, più che combattere preferiamo che passi la nottata, arrangiandoci alla bell’e meglio, nella speranza che la situazione migliori.

 

Quali abitudini sono mutate?

Basti pensare che siamo stati obbedienti: mascherina, distanza, home working... Non ci siamo tirati indietro. In una società come la nostra non era affatto scontato. Abbiamo deciso che il problema era serio e abbiamo detto sì a tutte le regole stabilite dal governo, senza protestare. Dalla pandemia, sicuramente esce un popolo più ordinato, disciplinato. E non è poco. In definitiva, non so se ne usciamo migliori: sicuramente ne usciamo più seri. Ma c’è un aspetto economico importante emerso in questo periodo, che potrebbe porre anche problemi se non gestito bene.

 

Quale?

È aumentato considerevolmente il risparmio. In media, abbiamo accresciuto il nostro patrimonio familiare del 15 per cento. Siamo diventati più ricchi, anche in virtù di una protezione statale fatta di sussidi, ristori, cassa integrazione. La domanda, a questo punto, è: che ci facciamo con questi soldi? Li investiamo o li spendiamo soltanto? Se non abbiamo nulla su cui investire, la spesa sarà la sola possibilità. Ma senza investimenti… Su questo aspetto, l’autunno sarà il banco di prova, quando gli effetti della fine del blocco dei licenziamenti si farà sentire e la legge di stabilità del prossimo anno non potrà più prevedere aiuti a pioggia.

 

In tale contesto, che ruolo possono avere le banche di credito cooperativo?

Il mondo del credito cooperativo, come sempre, può giocare da protagonista. Il problema, più che altro, sono i vincoli imposti dalle normative, che legano le mani a banche tradizionalmente vicine al territorio. Per questo, l’auspicio è che il credito cooperativo possa intercettare e allearsi con piattaforme intermedie, in grado di sostenere gli investimenti e un impiego produttivo del risparmio accresciuto.

 

Da un punto di vista decisionale, l’Italia si è differenziata nel suo approccio alla pandemia rispetto agli altri Paesi?

Direi di no. Tutti gli Stati si sono comportati nella stessa maniera: tirare avanti fino al vaccino è stata una strategia condivisa dappertutto. Non possiamo quindi dire che ci sia stato alcun modello Italia.

 

Qual è il sentimento che ha caratterizzato gli italiani durante questo periodo?

Sicuramente la paura. Non dimentichiamo che, specie all’inizio, la pandemia è stata una crisi ospedaliera e sanitaria: il virus si è diffuso nelle corsie e nelle terapie intensive. Per questo, è venuta meno una certezza: quella di un luogo sicuro su cui contare in caso di malattia, com’è l’ospedale appunto. Una paura durata a lungo, alla quale se ne sono affiancate altre, come quella del vaccino, figlia di una mancanza reale di informazione. Lentamente, però, questo sentimento si è affievolito, perché il sistema sanitario ha sostanzialmente retto, fino a rinforzarsi. Su questo punto va detto che gli infermieri e i medici non sono stati eroi: hanno semplicemente fatto il loro lavoro, ridando dignità all’intero sistema, tornato ad essere di nuovo una certezza per tutti. Per questo, ora la paura è diminuita, complice anche una campagna vaccinale che sta funzionando, e che sta annientando il timore di quanti paventavano effetti negativi dal vaccino stesso. Ora, però, è il momento di decidere cosa vogliamo fare del nostro futuro.

 

Se ne stiamo uscendo di chi è il merito? Dello Stato? Dei cittadini? Di tutti e due insieme?

Il merito è di tutti, non ci piove. Dei cittadini ho detto: sono stati obbedienti, ed è stato sicuramente un bene, che rimarrà nel tempo. Lo Stato, da parte sua, ha fatto il minimo sindacale: non avendo una cultura scientifica alle spalle, si è limitato a ordinare i comportamenti.

 

 

Giuseppe De Rita

Nato a Roma nel 1932, si laurea in Giurisprudenza nell'anno accademico 1953-54. Funzionario Svimez dal 1955 al 1963, diventa responsabile della sezione sociologica della Svimez dal 1958 al 1963. Consigliere delegato del Censis dal 1964 al 1974, diviene segretario generale della ondazione dal 1974 e presidente dal 2007. È stato presidente del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel) dal maggio 1989 al maggio 2000. Dal 1995 è presidente di Edumond Le Monnier. Svolge una intensa attività pubblicistica ed è stato presente, in questi ultimi anni, come relatore, ai più importanti convegni e dibattiti che hanno riguardato le condizioni e le linee di sviluppo della società italiana.