Per una nuova fiducia: il coraggio che serve ad un’Italia bloccata

L’analisi del sociologo Salvatore Abbruzzese: le imbarazzanti inefficienze dei giorni di pandemia figlie di un’ossessione burocratica che ci opprime da quarant’anni, come risposta sbagliata al problema della corruzione

Salvatore Abbruzzese Bcc Abruzzi E Molise
10 dicembre 2020
La Mia Banca | 

Un’Italia non solo corrotta ma anche bloccata. Un’Italia che per tornare a volare deve ritrovare il coraggio e imparare dagli errori fatti. Il professor Salvatore Abbruzzese, sociologo di fama e docente all’Università di Trento, analizza e suggerisce. Analizza l’Italia dei giorni nostri, alle prese – come il resto del mondo – con una pandemia aggressiva e con i tentativi di risposta che si stanno mettendo in atto. E suggerisce vie d’uscita da un pantano il cui fondo va ben oltre il covid: è storia degli ultimi quarant’anni. Lo fa per La Mia Banca, lo fa per i nostri lettori, lo fa per la grande famiglia della Bcc Sangro Teatina.

 

Professor Abbruzzese, la pandemia ha cambiato la nostra società? Se sì, come? Se no, perché?

Siamo in una situazione di mezzo: è abbastanza presto per dire se siamo in presenza di mutamenti sostanziali che investono la nostra società. Sicuramente gli stili di vita pre-covid ritorneranno, ma è ancora presto per dire quando, se non altro perché non sappiamo ancora quanto tempo durerà questa situazione. Una cosa, però, possiamo dirla sin da subito, ed è una cosa che mi preoccupa molto.

 

Prego.

La tenuta della credibilità del nostro sistema di governo. È vero, stiamo affrontando la situazione con norme eccezionali – penso ai vari dpcm -, siamo alle prese con problemi estremamente difficoltosi da gestire, e fortunatamente giorno dopo giorno ci imbattiamo in grandi gesti di eroismo, specie da parte del personale sanitario. Al tempo stesso, però, è altrettanto evidente che abbiamo a che fare con situazioni davvero assurde: penso alle bombole dell’ossigeno che mancano a Napoli o alle file per i tamponi drive in a Roma, fino ai posti di terapia intensiva senza il personale adatto a gestirli. Certe inefficienze sono imperdonabili, soprattutto alla luce di un altro fattore: si lanciano anatemi contro persone che passeggiano sulla spiaggia, magari membri dello stesso nucleo familiare, mentre si fa finta di non vedere i veri assembramenti, come quelli che interessano i trasporti pubblici. In breve: assistiamo ad un regime con i pieni poteri incapace di gestire la situazione, che tra l’altro in piena pandemia va a fare gli Stati Generali a Villa Pamphilij, come se tutto fosse già tranquillamente alle spalle... Certo, le soluzioni non sono sempre a portata di mano, ma avevamo mesi per pensarci. Questi livelli di imperizia, di grossolanità, sono deleteri: mi domando se alla fine non ne usciranno massacrate le istituzioni nel loro complesso.

 

Cosa si può imparare da tutto questo?

La società italiana ha sempre avuto un atteggiamento mansueto, improntato al “vivi e lascia vivere”. Nel momento in cui si passa in una situazione di rigidità, servono autorevolezza, credibilità e fiducia: niente di tutto questo si sta vedendo ai giorni nostri, e quindi si stanno predisponendo le basi per una rivolta che non sarà un’insurrezione – il nostro benessere è troppo alto per giustificare soluzioni sudamericane - ma vedrà piuttosto l’ampliarsi di quello spazio oscuro fatto di non voto, abbandono dei diritti, mercati paralleli, situazioni sommerse che già oggi interessano un buon 30 per cento della nostra società. Attenzione: la credibilità è sotto la soglia di guardia.

 

Perché siamo arrivati a questa situazione? Qual è, a suo avviso, il “peccato originale”?

Bisogna risalire agli anni Novanta, quando si scelse di dare una risposta sbagliata al problema della corruzione, un problema endemico di tutte le democrazie. Da noi, sulla spinta di un forte giustizialismo, si scelse di affrontarlo diffondendo una crescente sfiducia nelle persone e, quindi, con il moltiplicarsi del controllo, delle norme, delle procedure, della burocrazia, facendo diventare tutto questo – classificato come “lotta alla corruzione” - un’ossessione che ha progressivamente bloccato il nostro Paese: oggi, in Italia, non c’è burocrate che non abbia paura di firmare un qualunque documento, temendo conseguenze. Basti pensare inoltre che ci sono voluti mesi per capire che i ristori alle imprese andavano versati direttamente sui conti correnti… Non è un caso, quindi, se non viene più nessuno ad investire da noi: la credibilità del sistema statale è pari a zero. Tutto questo mentre la corruzione non è affatto finita, anzi. In definitiva: nel 2020 viviamo in un’Italia ancora corrotta e per di più bloccata.

 

Come se ne esce?

Da un lato comprendendo gli errori fatti e provando a porvi rimedio. Dall’altro, mettendo nei posti giusti persone di assoluta qualità, in grado di evitare le meste sorprese come quelle della Calabria. È indispensabile che le nostre leadership tirino fuori personalità specchiate. Non basta la retorica, neanche un discorso ben fatto: ci vogliono le capacità operative e il coraggio di derogare, specie in un momento eccezionale come quello attuale, a procedure già lente in tempi normali, figuriamoci in quelli di covid. Bisogna puntare su persone credibili, impegnate moralmente.

 

Che ruolo ha avuto in questo discorso l’antipolitica?

È stata una conseguenza del disincanto che ha afferrato il Paese nel momento in cui si è dovuto porre un freno a politiche clientelari che a lungo avevano caratterizzato il nostro sistema. E oggi si ritrova al governo chi ha soffiato sulla rabbia di molti ma che, proprio per questo, non sarà strutturalmente in grado di invertire la rotta, perché significherebbe chiedergli di sburocratizzare, derogare, velocizzare. Significherebbe, in altri termini, chiedergli di rinunciare alla sfiducia nelle persone, all’origine della rabbia e del malcontento che hanno contribuito alla loro vittoria. Avranno costoro il coraggio di tagliare il ramo sul quale sono seduti?

 

Come si vince questo “mostro burocratico” che ha paralizzato il Paese?

Rispondendo a questa domanda: che senso hanno procedure, norme e controlli in un’epoca in cui la tecnologia contribuisce a smascherare il malaffare?

 

Faccia un esempio.

Penso a strumenti potentissimi come le intercettazioni: potrebbero funzionare molto bene contro la corruzione nei pubblici uffici. A condizione, però, che non vengano usate come accade ora, facendole finire sui media incontrollatamente. E qui si evidenzia un altro grossolano errore fatto in passato, su cui pure bisognerebbe riflettere: prima della riforma del codice di procedura penale, esisteva un muro tra procure e giornali, che garantiva realmente la presunzione di non colpevolezza. Oggi la semplice informazione di garanzia è ormai condanna preventiva a mezzo stampa. Con quel che ne consegue in termini di fiducia nel sistema e nelle persone.

 

A proposito di media: come giudica l’ipercomunicazione dei giorni nostri?

Pericolosissima, perché serve ad alimentare aspettative destinate solo ad essere frustrate. È quanto accaduto in questi tempi di pandemia, in cui l’annuncio è stato più importante dei risultati reali, se mai sono stati ottenuti. Si pensi alla commissione Colao voluta da Conte mesi addietro: annunciata in pompa magna, liquidata senza neppure un rigo scritto divulgato.

 

Tornando all’ossessione delle procedure, pensa che possa essere utile una migliore formazione delle classi dirigenti?

Sicuramente, anche se tentativi in questa direzione pur sono stati fatti. Penso alla Scuola superiore di pubblica amministrazione voluta dal professor Sabino Cassese quasi quarant’anni fa, sui cui risultati sarebbe più giusto interpellare proprio il fondatore. Ma il problema è più grave: chiunque voglia invertire la rotta si troverà inevitabilmente alle prese con reazioni corporative e rendite di posizione difficili da combattere.

 

In tale contesto, che ruolo può avere il credito cooperativo?

Ai giorni nostri, questo modo di intendere il credito ottiene ottime performance ma ben poca rilevanza pubblica. Il perché è presto detto: da sempre, sin da metà Ottocento, credito cooperativo è sinonimo di progettualità, crescita, vicinanza alle persone e al territorio. Dunque, in un’Italia ancora corrotta e per di più bloccata così come l’abbiamo descritta, i decisori danno poca importanza a chi, come il credito cooperativo, rappresenta esattamente l’opposto.

 

 

Salvatore Abbruzzese

Nasce ad Arce (Frosinone) nel 1954, si laurea in sociologia e consegue il dottorato in sociologia all’Université Paris-Sorbonne. È attualmente professore ordinario di Sociologia della religione all’Università di Trento. È membro del Centre d'Etudes Interdisciplinaires des Faits Religieux (Ceifr) all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Paris). È membro della Société Internationale des Sociologues de la Religion e del comitato di redazione degli Archives en Sciences Sociales des Religions. È autore di decine di pubblicazioni su riviste scientifiche e divulgative italiane e internazionali.