L'arte in un uomo: compie dieci anni il Museo Sassu ad Atessa

Nella location di Palazzo Ferri, un’esposizione permanente che fa rivivere il percorso di uno dei più grandi maestri del Novecento. Alfredo Paglione: “Un luogo per respirare tutte le dimensioni della sua opera immortale”. E al museo una mostra sulla Grande Emigrazione

Sassu Paglione Bcc Abruzzi E Molise
10 aprile 2020
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“Il colore è poesia”. Era il 1942, e quando pronunciava questa frase Aligi Sassu entrava nel vivo della sua produzione artistica, fatta di figure accattivanti, miti, segni, cicli, uomini e cavalli. Ma soprattutto, una produzione fatta di colore, a partire da quel rosso che da sempre caratterizza i protagonisti delle sue opere. Così come, però, è riduttivo pensare al solo colore come cifra stilistica di uno dei più grandi maestri del Novecento, è altrettanto riduttivo pensare a Sassu come solo pittore. È stato questo, infatti, il cruccio di Alfredo Paglione, mecenate e cognato dell’artista, che per lunghi anni ha promosso l’intera opera di Sassu: “Pittura, certamente. Ma qualunque materiale nelle sue mani scatenava un’irresistibile voglia di trasformare un’idea in arte. Sassu, per questo, fu mosaicista, ceramista, scultore, illustratore, grafico…”.

 

E questo “cruccio” di Paglione dieci anni fa ha dato vita al più importante museo in Italia dedicato al maestro, allestito nell’elegante scenario di Palazzo Ferri ad Atessa anche grazie al generoso contributo della Bcc Sangro Teatina che sin da subito ha creduto nel progetto. Inaugurato il 5 agosto 2010 e gestito dalla Fondazione MuseAte presieduta dalla professoressa Adele Cicchitti, la struttura ospita ben 270 opere tra dipinti, sculture e ceramiche che riassumono un percorso artistico unico, di cui Paglione è stato testimone e in qualche modo co-protagonista. “Ho conosciuto Sassu nel 1957, grazie ad Helenita Olivares, allora fidanzata e in seguito moglie del maestro, nonché sorella di Teresita che sarebbe poi diventata mia moglie. Mi invitò a trascorrere un periodo di vacanza ad Albissola Marina, in Liguria, dove aveva realizzato diverse opere, tra cui un lungo tratto della passeggiata degli artisti”. Già lì Paglione capì la vocazione del cognato a decorare ambienti pubblici, che negli anni poi si è riproposta diverse volte, con mosaici, affreschi e ceramiche oggi visibili in chiese, luoghi istituzionali e all’aperto, e che in qualche modo ha voluto riproporre a Tornareccio con il museo di mosaici.

 

Ma cosa affascinava di più il giovane Alfredo Paglione di Sassu? “Sicuramente la sua poliedricità. Non c’era disciplina artistica in cui non primeggiasse. Se nell’immaginario collettivo è rimasto forte il suo contributo all’arte figurativa, per via di capolavori diventati leggendari, come i Ciclisti o le lunghe serie dei Cavalli rossi, non di minore importanza sono le sue sculture, i mosaici e la ceramica, per non parlare delle grafiche, le illustrazioni e via dicendo. In breve, Sassu era l’arte a 360 gradi. E posso dire senza timore di essere smentito che nessuno come lui nel Novecento è stato in grado di interpretare così profondamente l’arte e le sue dimensioni. Sono davvero orgoglioso di aver avuto la possibilità di lavorare al suo fianco, organizzando mostre, eventi e curando pubblicazioni che hanno riconsegnato un’immagine di Sassu più corrispondente alla realtà. Tutto questo, in qualche modo, è riassunto nel museo atessano”. Ma chi era, umanamente parlando, Aligi Sassu? “Era una persona di una bontà infinita – racconta Paglione – sicuramente accresciuta anche dalle tristi vicende che ha passato, a partire dagli anni del carcere per il suo sincero antifascismo. Questa bontà, poi, si esprimeva nell’aiuto che sapeva dare ai giovani a sviluppare i loro talenti. Sicuramente per me è stato un maestro, che mi ha aiutato a comprendere meglio l’arte, le dinamiche che ci sono dietro, senza mai abbandonare l’amore vero e non meramente commerciale per l’opera d’arte in sé. Nel contesto artistico dei suoi anni, Sassu era anche un protagonista capace di suscitare tanta invidia nei suoi colleghi, perché in fondo aveva mercato facile: le sue opere piacevano e si vendevano bene”. E ora tutto “rivive” ad Atessa, da dieci anni: in un museo che affascina, conquista e continua nel tempo un mito, un uomo e la sua arte.

 

 

I documenti, i cimeli, i ricordi, le storie nella mostra sulla Grande Emigrazione

Ha riscosso un grande successo di pubblico la mostra “Amara terra mia”, promossa dalla Fondazione MuseAte con il patrocinio del Comune di Atessa, ed esposta nello splendido scenario del Museo Sassu dal 14 dicembre 2019 a marzo di quest’anno: in vari pannelli, è stata ricostruita la Grande Emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento grazie alla passione e alla dedizione di Nicola Celiberti e Mario Fornarola, che insieme a Adele Cicchitti, Anna D’Intino e Anna Pia Apilongo hanno scavato tra documenti, fotografie, archivi, libri, ricordi, cimeli, titoli di viaggio e suggestioni di un periodo difficile e intenso, che ha segnato la storia di un’intera nazione. Una nazione come l’Italia, ma anche e soprattutto l’Abruzzo, visto che nel solo periodo dal 1901 al 1910 abbandonarono questa terra, un tempo unita al Molise, ben 417.775 persone. Numeri significativi, tra cui si celano dolori, amori, speranze, delusioni.

 

E tante storie: come quella, curiosa, di Luigi Finoli, emigrato atessano, che si imbarcò sul Titanic nella popolare ed economica terza classe del transatlantico per rientrare in America, e riuscì a salvarsi dal traumatico naufragio del 14 aprile 1912 aggrappandosi ad una scialuppa. Era partito da Atessa nel 1899, Finoli, e dopo una vita trascorsa da commerciante dapprima a New York e poi a Philadelphia, dove c’era una nutrita comunità abruzzese, fece rientro nella sua città natale per morirvi nel 1938.

 

A proposito di quest’ultima città, di sicuro interesse è la rievocazione della “Società di Mutuo Soccorso degli Atessani di Philadelphia” fondata nel 1906: una storia di solidarietà e coesione in un ambiente, quello americano di inizio secolo, dove forti erano le pulsioni razziali, le incomprensioni e finanche le violenze. La Società aveva proprio il compito di mitigare queste difficoltà, contribuendo al tempo stesso a mantenere il legame con la terra natia, se è vero che si occupava anche di raccogliere fondi per lo svolgimento delle festività patronali ad Atessa o in occasioni particolari, come il terremoto di Messina del 1908 e quello della Marsica nel 1915. Negli anni Trenta, come dimostrano i registri, facevano parte della Società oltre trecento famiglie, tra cui quella di Roberto Carlo Venturi, padre di Bob Venturi, uno dei più prestigiosi architetti americani del Novecento, scomparso nel 2018 e pure legato alla terra di origine del padre.

 

In un’ottica di documentazione del fenomeno, la mostra approfondisce il tema prettamente economico delle rimesse degli emigranti. E lo fa mostrando documenti di origine bancaria relativi a spostamenti di denaro dagli Stati Uniti e altri paesi come l’Argentina: si tratta di documenti d’epoca molto significativi, che fanno il paio con la mole non secondaria proveniente dall’archivio di Duilio e Mario Fornarola, che comprende anche circolari ministeriali, ricerche di personale, istruzioni limitative dei visti per gli Stati Uniti, giornali e riviste d’epoca, foto di famiglia e cartoline spedite ai familiari rimasti in Italia. Particolare curioso, la ricostruzione delle richieste di lavoro provenienti dall’altra parte dell’oceano, con rinvii a rischi di speculazione, contatti con i rappresentanti delle imprese e via dicendo.

 

Come detto, la mostra ha ottenuto il consenso delle numerose persone che l’hanno visitata, non ultime le scolaresche di Atessa, ma anche delle autorità di altri comuni del territorio, che hanno richiesto alla Fondazione MuseAte la disponibilità per esposizioni nel periodo estivo e autunnale. Se le condizioni lo permetteranno, sarà un piacere contribuire a far conoscere a quante più persone possibile questo imprescindibile pezzo di storia abruzzese.